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Il dialetto ed il teatro

Aggiornamento: 26 lug

Dentro il fitto groviglio delle nostre radici storiche, una gemma preziosa risplende: il dialetto. È un filo sottile, ma robusto, che ci lega indissolubilmente al passato, all'essenza stessa delle nostre terre.


Ma quanti sono, esattamente, i dialetti che popolano l'Italia?


Una domanda dalla risposta sfuggente, avvolta nel mistero delle sue varianti. Le sponde di geografie anche prossime si tingono di sfumature linguistiche tanto diverse da rendere vana qualsiasi ricerca di precisione.


Le divergenze tra dialetti, anche i più simili, si manifestano in molteplici strati: nel lessico, nella fonologia, nella morfologia e nella sintassi. Tuttavia, è possibile tracciare dei confini linguistici, delineando cluster regionali che rivelano le peculiarità di ogni territorio.

In questo intricato scenario emerge il palcoscenico dialettale, luogo di incontro tra parola e cultura.


Qui, le radici del teatro dialettale affondano profonde, risalendo ai tempi di Goldoni, che abbandonò le maschere della commedia dell'arte per dar voce al veneziano. Fu un gesto rivoluzionario, che portò in scena la vita quotidiana con una verosimiglianza mai vista prima. Il teatro dialettale, nato in seno a contesti ben definiti, ha spesso superato i confini locali per abbracciare l'intera nazione.



File:Dialetti parlati in Italia.png - Wikimedia Commons



Ogni regione d'Italia, con le sue storie e le sue peculiarità, ha generato un teatro dialettale unico, riflesso di una penisola ancora divisa nelle sue identità.


Eduardo Scarpetta è considerato il padre del teatro dialettale moderno, ma è con De Filippo che le espressioni napoletane hanno varcato i confini regionali, plasmando gli standard italiani della commedia teatrale.


Meli e Pirandello, precursori del realismo siciliano, hanno lasciato un'impronta indelebile nel panorama teatrale italiano, traducendo le loro opere in italiano solo dopo aver conquistato il pubblico siciliano.


E poi ci sono altri luminari sparsi per il Bel Paese: Gilberto Govi, che sfidò l'Accademia filodrammatica con le sue commedie in genovese durante la Grande Guerra; Macario, icona del cinema, della televisione e del teatro con le sue irresistibili gag in dialetto piemontese; Alfredo Testoni, che ha portato la vita del cardinale Lambertini sul palcoscenico bolognese, ottenendo celebrità grazie al film degli anni '60 con Gino Cervi.



Ma Dario Fo merita un capitolo a parte. Il grande drammaturgo lombardo ha utilizzato il dialetto non solo per le sue giullarate e satire, ma anche come strumento per una rivoluzione teatrale. Con il suo grammelot, Fo ha saputo trasformare il suono dialettale e le onomatopee in un'esperienza narrativa visionaria e immaginifica. Il suo rapporto con i dialetti è stato viscerale, profondo, un legame che ha permeato ogni pagina delle sue opere, come lui stesso ha ammesso.


“[…] quando imparate un testo cercate di ritradurvelo prima con parole vostre, e poi nel vostro dialetto, se ne avete uno. E’ una grande sfortuna per un attore non possedere un dialetto come fondo alla propria recitazione. Ho conosciuto attori che ne erano privi: dicevano le battute proiettando fonemi piatti, asettici, e senza nessuna musicalità nei toni e nelle cadenze

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